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La formazione come nuovo modello culturale-big

La formazione come nuovo modello culturale

Nell’epoca della tecnologia 2.0 la formazione diventa anche digitale.

I pionieri – come sempre – sono stati gli USA, quando – nel 2011 – la Stanford University ha deciso di realizzare un corso online sull’intelligenza artificiale.

160.000 gli iscritti: un boom inaspettato che ha funzionato da spin-off al mare di iniziative seguite.

Nel 2012 il New York Times parlava già di “Anno dei MOOC”.

L’acronimo sta per “Massive Open Online Courses“, letteralmente tradotto in “Corsi massivi online aperti a tutti“. Il termine viene coniato nel 2008 da Dave Cormier e Bryan Alexander, in riferimento al corso “Connectivism and Connective Knowledge” tenuto dal Professor George Siemens, della Athabasca University.

Per la prima volta, ben 2.200 studenti si connettono alla Rete per seguire una lezione universitaria.

L’apprendimento a distanza focalizza il successo su due chiavi fondamentali: diffusione globale della cultura e abbattimento dei costi tradizionali.

Alla base del sistema e-learning, c’è l’idea di sfruttare le capacità di Internet per allargare la divulgazione del sapere a più ampi strati della società. I partecipanti provengono da ogni parte del mondo e accedono alle lezioni attraverso il web.

Il dibattito su funzionalità e vantaggi dei MOOC è ancora aperto.

I sostenitori promuovono la novità della formazione telematica per il valore fortemente democratico, l’interattività e l’aumentata esperienza di confronto e dibattito.

Gli scettici argomentano con riflessioni più propriamente tecniche e critiche agli interessi pubblicitari degli enti coinvolti. In effetti l’organizzazione dei corsi è spesso inadeguata, e la loro riuscita fortemente condizionata dalla capacità di autodisciplina dello studente. A supportare la tesi l’elevato numero di coloro che abbandonano in itinere. Solo il 10% degli iscritti arriva ad ottenere la certificazione conclusiva.

Bisogna chiedersi perché.

Dati statici alla mano, l’utente medio MOOC è già in possesso di una laurea, lavora ed ha un’età compresa fra i 25 ed i 35 anni. Sostanzialmente un early adopter del web, che sa muoversi con abilità in Rete e cerca di tenersi in costante aggiornamento.

Di frequente, sono le stesse aziende che attingono a tale canale, per investire sulla formazione dei propri dipendenti, limitando spesa economica e perdita di tempo.

Gli esperti del settore si stanno adoperando, per adeguare la struttura dei corsi alle esigenze degli learners effettivi. Quindi contenuti meno accademici e più brevi.

E in Italia?

Se la difficoltà dei Paesi in via di sviluppo è la mancanza di connessione e dispositivi, il problema per il Bel Paese è di tutt’altra natura: non parla inglese.

Si taglia così fuori dal mercato del lavoro e dell’istruzione, in quanto la quasi totalità dei corsi digitali è realizzata da piattaforme anglofone.

Sporadiche le attività formative organizzate dagli atenei nazionali, che non bastano a fronteggiare le crescenti richieste degli studenti.

Il tentativo è quello di istruire le masse, come faceva negli anni Sessanta il Professor Alberto Manzi, con il programma RAI “Non è mai troppo tardi”.

La formula era del tutto innovativa: milioni gli italiani iniziati all’alfabetizzazione mediante didattica televisiva.

Cinquant’anni dopo, la storia si ripete e cambiano i mezzi.

L’obiettivo è quello di perfezionare un sistema che ha enorme potenziale, ma rimane in parte inespresso.

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